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Martina Picca, un libro con le storie delle vittime del Coronavirus: «Erano persone, non numeri»

martina picca
Il bollettino settimanale della Protezione Civile da settimane scandisce l’evoluzione del Coronavirus: i contagi, le guarigioni, i decessi. Le cifre di quest’ultima categoria appartengono per lo più ad anziani: ognuno di loro era nonno di qualcuno, sorella di qualcuno, marito o moglie di qualcuno. Quelle cifre sono storie, non legate solo al Coronavirus.

Sono state vite normali in cui c’è stato spazio per la famiglia, per l’amore, per il lavoro, per gli affetti, per i dispiaceri, per i viaggi, per le delusioni. Il progetto di Martina Picca pone l’accento proprio sul risvolto più intimo e personale di quelle persone e delle loro storie. Piacentina, già autrice di un precedente libro che affonda le sue origini in una tragedia vissuta dalla sua città nel 2015 (l’alluvione), Martina Picca ha deciso di dare voce a coloro che nell’emergenza sanitaria hanno perso una persona cara e hanno il desiderio di ricordarla. Sta ricevendo decine di lettere, in cui figli, madri, mogli, fratelli raccontano le storie di coloro che non ci sono più.

Come nasce questo progetto?

Sono uscita a gennaio col primo libro, edito Officine Gutenberg, che si occuperà anche di questo. Se una notte di settembre l’alluvione racconta l’alluvione che a settembre 2015 ha colpito il piacentino e che ha cambiato totalmente la mia vita e quella della mia famiglia. Casa mia è stata distrutta, noi siamo stati salvati al limite. Allora avevo 17 anni e quel libro ripercorre quello che per me è stato un trauma. La scrittura mi ha salvato la vita. Sono partita da questo: dalla scrittura come qualcosa utile a superare un trauma. Due mesi fa una mia amica ha condiviso su Instagram una storia: aveva appena perso la nonna per Coronavirus e la settimana prima era venuto a mancare il nonno. Il suo messaggio era farsi forza e ricordare le persone che stiamo perdendo. Quindi ho pensato di rendermi utile: ho messo a  disposizione la mia mail e chi vuole può scrivermi e raccontarmi la storia.

Come stai vivendo questo nuovo momento di crisi e di lutto nella tua città?

Piacenza è la città emiliana più colpita, abbiamo superato gli 800 morti. I piacentini sono persone forti, ma qui non saremo più gli stessi di prima. Sono convinta che Piacenza tornerà più bella di prima e così i piacentini, ma incompleti: mancheranno pezzi impossibili da recuperare, le persone non tornano indietro e questa è una ferita che rimarrà sempre. 

Quali sono le parole più ricorrenti, nelle lettere che ti stanno giungendo?

In tutte le storie, anche se sono storie per lo più di persone che non ci sono più, quello che viene fuori è sempre l’amore, c’è sempre in primo piano il legame. Certo, è un libro dove c’è tanto dolore, si parla di morte, ma c’è anche quest’altro risvolto, questo spiraglio. E poi tutti mi scrivono la parola grazie: ma io non sto facendo granché.

Secondo te cosa ha spinto queste persone a prendere in mano la penna e scriverti queste lettere?

Da una parte c’è il non voler dimenticare. Dall’altra si vuole affermare che quei numeri erano persone. All’inizio dell’epidemia si diceva che per Coronavirus muoiono solo gli anziani, ma si tratta innanzitutto di padri, madri, fratelli, sorelle: erano persone, non persone morte per Coronavirus.

martina picca

Quando uscirà il libro, quali sono le prossime fasi di lavoro e le tempistiche?

Io sono partita in quinta, ma poi ho dovuto rallentare. Fortunatamente ho trovato subito appoggio nella mia casa editrice. Anche il quotidiano di Piacenza si è unito a noi, quindi il libro uscirà in edicola in collaborazione con Libertà. Sono alle prese con più di sessanta storie, ma sono ancora in fase di raccolta. La mia mail è ancora disponibile, ho intenzione di inserire nel libro tutto ciò che mi arriva. Ognuno elabora il dolore a suo modo, magari qualcuno mi scriverà tra un mese. Ovviamente, la speranza è che presto non ci saranno più morti.

Dove prendi la forza per immergerti in storie così forti?

Sicuramente l’esperienza dell’alluvione mi ha aiutato in questo senso, ad andare verso gli altri: ero già entrata a contatto con dolori di questo tipo. Non ho perso nessuno dell’alluvione, ma ho vissuto un trauma che mi porterò sempre dietro, quindi mi trovo bene a raccontare il dolore degli altri, a dargli voce. Sembra paradossale, ma forse è perché cinque anni fa avrei voluto che qualcuno lo facesse con me. Queste persone non mi conoscono ma mi stanno affidando le loro storie, si stanno fidando di me: e per me questo è un privilegio, è un onore.

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