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“Nel cuore dell’emergenza”: la dottoressa Simona Mastrangeli racconta le giornate nel reparto di terapia intensiva

simona mastrangeli
Medici, volontari, infermieri sono da settimane sotto la lente d’ingrandimento. L’emergenza sanitaria li sta mettendo tutti a durissima prova e da ogni parte del mondo giungono dimostrazioni di affetto e solidarietà, oltre che aiuti concreti dal punto di vista finanziario, per contribuire alla loro missione.

Il Coronavirus ha acceso un faro su questi professionisti che si stanno confrontando con qualcosa a cui di certo la scuola di Medicina non li aveva preparati. Nessuno di loro (e nessuno di noi) immaginava che avrebbe dovuto fare i conti con una pandemia. Simona Mastrangeli è una specializzanda, sta lavorando in terapia intensiva a Verona in questi giorni di crisi: si trova dunque nel cuore dell’emergenza.

Da tempo vicina al mondo della scrittura (anche se di tutt’altro genere), Simona Mastrangeli ha riversato su carta il suo vissuto di queste settimane, all’insegna del Covid-19.

E così è nato il romanzo-diario intitolato proprio “Nel cuore dell’emergenza”. Il ricavato servirà per acquistare materiale utile per l’ospedale e i pazienti.

Come nasce Nel cuore dell’emergenza?

Il libro è scritto sotto forma di diario ed è stato scritto di getto, ho cominciato per l’esattezza il 23 marzo. Io sono una specializzanda in Anestesia e Rianimazione, non vivo una realtà di reparto, ma di Terapia Intensiva. Noi abbiamo a che fare coi casi più gravi. All’inizio era uno sfogo per tutto quello che mi succedeva in quei giorni. Ho cercato di raccontare più situazioni che pazienti o casi specifici, anche se di alcuni che mi sono rimasti particolarmente impressi ho voluto scrivere. Altri personaggi (ad esempio Federica) rappresentano simbolicamente più persone incontrate o con cui ho avuto a che fare nel mio percorso, perché ovviamente non potevo citarli tutti.

Tu hai iniziato scrivendo libri fantasy, come mai la scelta di puntare il faro su di te stavolta?

Io scrivo libri fantasy da molto tempo, ma questa è la prima volta che scrivo qualcosa in prima persona, vissuto da me direttamente. All’inizio non sapevo nemmeno che finale avrebbe avuto questo libro, non sapevo se lo avrei effettivamente pubblicato, non pensavo potesse interessare, anche perché io stessa non lo stavo scrivendo con finalità di acquisto, ma più per me. Per la prima volta non avevo in mente trama, intrighi, colpi di scena, personaggi. Tutto è andato avanti parallelamente alla mia vita, infatti ho finito di scrivere all’incirca l’8 aprile. Io volevo far uscire il libro a Pasqua, come messaggio di speranza. Ma all’inizio tutta questa speranza in realtà non c’era. Poi alcuni eventi delle ultime settimane hanno reso decisiva la stesura e la decisione di pubblicarlo il 12 aprile, per dire che effettivamente ora le cose vanno meglio.

Come stai vivendo questa situazione di emergenza sanitaria?

All’inizio avevo paura, era una cosa nuova e come sempre quando ci approcciamo a qualcosa di nuovo non sappiamo cosa succederà. All’inizio si diceva che i dispositivi in dotazione non proteggessero per l’intero turno ma solo per metà del tempo e questi sono dubbi che ti fanno avere ancora più paura. La malattia colpisce sì soprattutto anziani e persone con pregresse patologie, ma anche persone giovani. Quindi la paura di ammalarsi e infettare a mia volta, c’era. Poi mi sono abituata a lavorare in quelle condizioni: certamente è un turno fisicamente ed emotivamente più difficile.

Che clima si respira in terapia intensiva?

Ora va meglio, ma quando ho iniziato a scrivere non era così. Il mio primo turno in Coronavirus è stato il 15 marzo: ho avuto a che fare con i primi casi, i pazienti più gravi. E la paura principale era che non ci fossero posti sufficienti per accogliere tutte le persone che ne avevano bisogno. Il brutto della terapia intensiva è che nel momento in cui i pazienti si svegliano passano poco tempo con noi e lo trascorrono intubati, in condizioni critiche. Quando si svegliano, anche dopo due settimane trascorse sedati, sono disorientati, non capiscono cosa sia successo. Mentre nei reparti il paziente può, se ne ha le forze, alzarsi e fare un giro, in terapia intensiva questa possibilità non c’è. I pazienti non ne sono in grado, serve un percorso riabilitativo. Quindi c’è anche molta depressione. Noi cerchiamo di fargli capire l’accaduto, di fargli forza.

Vi concedete qualche momento di distrazione?

Devo dire che c’è stato molto aiuto tra di noi, ma anche da parte dei privati. C’era, ad esempio, chi ci portava delle cose da mangiare, un tiramisù per dire: era quel qualcosa che appunto ci permetteva di rilassarci un attimo. Soprattutto a fine turno, prima di tornare a casa. La figura del medico c’è sempre stata ed è sempre andata incontro a situazioni stressanti dal punto di vista emotivo. Fin dal primo giorno di Medicina si impara a fare i conti con la morte. Da una parte si diventa più “cinici”, per proteggersi, ma siamo umani e soprattutto quando vediamo le persone giovani non si riesce a staccare davvero del tutto. Magari sei a casa, guardi un film, ma prima di dormire ti viene in mente quel determinato paziente.

Ad oggi gli aiuti agli ospedali e ai medici sono adeguati?

Per il momento la situazione è migliore, ma ogni giorno può succedere qualcosa che ci mette in bilico. All’inizio dell’emergenza io non sapevo nemmeno se da lì al giorno seguente, da lì a una settimana avremmo avuto sufficienti dispositivi di protezione. Ma devo dire che c’è sempre stato chi si è attivato per far sì che non mancasse niente, anche acquistando ad esempio le visiere di tasca propria, per tutti. Le visiere prima venivano usate solo in casi particolari: all’improvviso il particolare è diventato all’ordine del giorno.

Qual è la tua speranza per il futuro più immediato?

Penso e spero che con la collaborazione di tutti la cosa si risolverà presto, anche le limitazioni stanno diventando più stringenti. Certo, la mia paura è che con la libertà le persone tornino subito a fare assembramenti, ad avere poca cura degli altri, a pensare che sia finita del tutto. Questo potrebbe portare a un secondo round, che però spero vivamente non ci sia.

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